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Doug Aitken, l'arte del qui e ora

testo di Giovanna Amadasifoto di Stephanie Dian

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Dieci anni fa alla Biennale di Venezia un ragazzo californiano di 31 anni vinse il premio della giuria con un'installazione dal titolo Electric Earth che aveva l'energia di Mtv, il ritmo di Altman e la complessità di Bruce Naumann. Doug Aitken oggi di anni ne ha 41 e, oltre a essere una star internazionale, è riuscito nell'impresa più ardua: riportare l'arte al pubblico e il pubblico all'arte, senza perdere d'intensità e di capacità di sperimentare.
Aitken sa trasportare il deserto della Namibia nella sala chiusa di un museo e l'intimità di una stanza d'albergo nelle strade di una grande città, e lo fa con immagini e suoni stupendi. Le sue installazioni spiazzano per il modo con cui riescono a raccontare emozioni complesse in modo spettacolare: come la claustrofobia dei paesaggi che ci siamo costruiti intorno, il vuoto incombente di quelli che ci lasciamo alle spalle, il ritmo del tempo e il flusso di immagini cui è impossibile sottrarsi da quando viviamo in un mondo tecnologico.
Quando lo incontro mi colpisce il suo aspetto da ragazzo e quell'understatement inconfondibilmente californiano che ti aspetti da un animatore della Pixar o da un regista di Lost: più da professionista della creatività che da artista. Ma bastano poche parole per convincersi del contrario. Doug Aitken è un artista-artista. E come tutti gli apparte-nenti a questa specie ha un'ossessione semplice, precisa, ambiziosa: inventare, grazie alla tecnologia, la Land art del XXI secolo. «Cerco di distillare le immagini del paesag-gio in modo quasi alchemico, per poi rimetterle assieme e creare un nuovo paesaggio fittizio. Mentre i nostri padri, da Smithson a Turrell a De Maria, avevano un atteggia-mento invasivo, aggressivo verso il paesaggio, io vorrei creare una Land art olistica». Una sfida non da poco, che Aitken sta mettendo in pratica in Camargue con l'installazione Moving City, e che sarà anche un po' il tema del lavoro all'Isola Tiberina di Roma alla fine di ottobre, per il progetto di arte pubblica Enel Contemporanea: strut-ture completamente immateriali, «una sorta di origami di immagini in movimento» che sovvertono il nostro modo di abitare lo spazio. «Esistono i lavori che sono sempre u-guali a se stessi e quelli che si trasformano: io cerco di creare qualcosa che col tempo si modifica, smette di essere opera d'arte e diventa parte del paesaggio».
Ma partiamo dall'inizio. Chiunque si sia trovato a passare sulla 53ª strada di Manhattan tra gennaio e febbraio del 2007 ha provato sulla sua pelle un'esperienza indimen-ticabile: dopo il calare del sole, la facciata del MoMA si trasformava in un gigantesco schermo luminescente su cui scorrevano le immagini lente di Tilda Swinton, Donald Su-therland, dei musicisti Cat Power e Sue Jorge, di uomini e donne sconosciuti, che dormono, si alzano, bevono il caffè, vanno in ufficio, aspettano il taxi, si mangiano le un-ghie. Gesti intimi e personali gettati in mezzo allo spazio pubblico: guardare Sleepwalkers era un po' come trovarsi svestiti - anche emotivamente - in mezzo alla strada. «Il progetto è un tentativo di riumanizzare lo spazio urbano - racconta l'artista - rubando il linguaggio delle immagini di Times Square, che è a pochi isolati di distanza. Ho sosti-tuito quelle immagini aggressive, i led luminosi, i colori primari, con luci delicate e scene molto intime, malinconiche, introspettive».
Fu l'inizio di un percorso alla ricerca di modi sempre diversi di portare l'arte "fuori" dagli spazi, dai contesti - fisici e mentali - in cui ci hanno abituati a consumarla: «Sono molto interessato al fatto che un'opera ti possa prendere alla sprovvista, ti possa dare energia, ti spiazzi. Che ti trascini dentro a un dialogo. Non c'è niente che mi piaccia di meno che l'idea di guardare l'arte con una distanza o con un atteggiamento difensivo, intellettualizzato», dice Aitken. Poi accende il laptop e mostra, frame dopo frame, la sua ultima, grande fatica: è Migration, al tempo stesso un coast to coast alla ricerca nostalgica del paesaggio americano e una potente metafora delle situazioni claustrofobiche e solitarie in cui ci costringiamo a vivere. In anonime stanze di motel Aitken e i suoi collaboratori («un gruppo stretto di amici, cinque-sei persone che rendono fattibili le mie ide-e») hanno rinchiuso e ripreso gli animali selvatici che un tempo - e ancora adesso - popolano i grandi spazi selvaggi. Il risultato è esotico, poetico e a tratti comico: un leone di montagna distrugge completamente la stanza, un gufo fissa il vuoto attonito per minuti, una lontra sguazza dentro la vasca da bagno, due pavoni bianchi sostano pacifici sul letto a due piazze. «Volevo vedere che effetto faceva accostare i primi abitanti di questo paese al paesaggio anonimo realizzato nel corso della civilizzazione».
Ma l'esperimento più estremo - quello che forse gli artisti del 2050 andranno a vedere in un pellegrinaggio, come oggi i giovani vanno alla ricerca della Spiral Jetty di Smi-thson sommersa nel Grande Lago Salato e riemersa nel 2004 - è qualcosa «di completamente site specific: un'opera che non si può vedere in un museo o in una galleria». E che, infatti, si trova nel mezzo delle colline boscose di Belo Horizonte, in Brasile: il Sonic Pavilion non è architettura né scultura, ma un dispositivo per ascoltare i movimenti della terra, un padiglione di vetro collegato con un microfono a un miglio di profondità: «Sentire le rotazioni della terra, ascoltare i movimenti delle zolle ci costringe a essere nel presente, a tener conto di ogni attimo che passa». Una riduzione ai minimi termini, un tentativo di fermare il senso dell'"adesso, qui" che è poi la magia di ogni opera d'arte quando funziona veramente.
  CONTINUA ...»

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